L’art. 2 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi individua tre presupposti alternativi per determinare la residenza fiscale di una persona fisica che per la maggior parte del periodo di imposta risiede in Italia, come segue:

  1. il primo, solo formale, è rappresentato dall’iscrizione della persona fisica in una delle anagrafi della popolazione residente in Italia;
  2. il secondo, fattuale, è costituito dalla residenza della persona fisica nello Stato ai sensi dell’art. 43 del Codice Civile che recita ”…Laresidenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale [144(2)”.
  3. il terzo, anch’esso fattuale, è costituito dal domicilio della persona fisica nello Stato sempre ai sensi dell’art. 43 del Codice Civile che recita “Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi [14, artt. 45 46 c.c.] (1)

Escluso il primo che, alla luce degli ultimi orientamenti dei Giudici tributari, è solamente una questione di forma, passiamo ai secondi due che, invece, vanno a scartabellare la sostanza fattuale del caso. In altre parole, dove si trova la residenza effettiva della persona fisica? Dove si trova il suo centro vitale degli interessi personali (moglie, figli, famiglia, affetti personali)?

Dopodiché, dove è localizzato il domicilio della persona fisica ossia la sede principale dei suoi affari ed interessi?

La persona fisica sarà chiamata a documentare la sua residenza, nonché il suo domicilio, in uno stato o nell’altro a seconda dei casi. A tal fine dovrà precostituirsi, nel corso degli anni, tutta una serie di prove ed elementi che lo stesso potrebbe essere chiamato a mostrare alle autorità fiscali. Questo è alla base di tutto e deve e/o può servire al contribuente per poi dare dimostrazione dei fatti accaduti e, quindi, difendersi contro un eventuale avviso di accertamento delle autorità fiscali italiane.

Si ribadisce qui di seguito che, ad avviso degli ultimi orientamenti dei Giudici tributari, l’iscrizione all’anagrafe dei residenti all’estero (A.I.R.E.) non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, soprattutto, se il soggetto in questione possiede nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle relazioni personali (centro vitale degli interessi vitali: famiglia, moglie, figli, legami più stretti, ecc.).
Alla luce di quanto precede, quindi, si afferma che “ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell’interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l’art. 7, n. 1, secondo comma, della direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali” (Corte di Giustizia UE: sentenza 12 luglio 1999, causa C-262/99). Ed, in particolare, si precisa che occorre considerare tutti i legami personali dell’interessato tra cui:

  • la presenza fisica di quest’ultimo, nonché quella dei suoi familiari;
  • la disponibilità di un’abitazione;
  • il luogo di esercizio dell’attività professionale e quello in cui vi siano interessi patrimoniali.

In ognuno dei legami di cui sopra deve sempre prevalere il criterio di effettività, e cioè a dire, la prevalenza dell’uno su gli altri e la veridicità degli stessi. Ecco il perché dell’importanza della precostituzione delle relative prove durante gli anni.
Tanto è vero che la presunzione di residenza fiscale in Italia del soggetto trasferito in un paese, ad esempio, a fiscalità privilegiata può esser vinta dimostrando di avere, all’estero, la sede principale della propria attività, mentre le relazioni affettive e familiari non hanno importanza prioritaria nella prova della residenza fiscale. Tale principio, desumibile dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 6501 del 31 marzo 2015, implicava il rigetto del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, che pretendeva di rinvenire la residenza fiscale italiana, ai fini IRPEF, in capo ad un cittadino elvetico che aveva la cittadinanza italiana e si era iscritto all’AIRE già nel 1978, in virtù dei legami affettivi intrattenuti con l’Italia. In particolare, facendo applicazione dell’art. 2 comma 2-bis del TUIR, l’Agenzia riteneva di poter presumere la residenza fiscale italiana del soggetto in questione, in quanto trasferito in un Paese a fiscalità privilegiata, potendo, così, assoggettare ad imposizione in Italia i compensi percepiti quale amministratore unico di una società a responsabilità limitata. Invece, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rifiutare tale impostazione tenuta dall’Agenzia confermando le pronunce delle Commissioni tributarie provinciale e regionale che, a loro volta, avevano già negato la sussistenza della residenza fiscale in Italia, ritenendo che tale soggetto avesse fornito prove idonee al fine di vincere la presunzione di residenza in Italia, tra cui:

  • di essere cittadino elvetico già dal 1976 con passaporto svizzero;
  • i risiedere in Svizzera;
  • di svolgere in Svizzera la propria attività di lavoro dipendente con contratto a tempo indeterminato che prevede un orario di lavoro di 8 ore giornaliere;
  • di avere in Italia solo un immobile “locato ad uso archivio”.

Ovviamente la tesi dell’Agenzia delle Entrate si arroccava sulla disposizione antielusiva prevista dal comma 2-bis dell’art. 2 del TUIR secondo cui i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Paesi a fiscalità privilegiata si considerano residenti in Italia, salvo prova contraria. Ma nel caso di specie nessuna delle regole (già menzionate sopra) per la determinazione della residenza fiscale definite dall’art 2 del TUIR si era verificata quindi la presunzione era da considerarsi superata avendo il contribuente dato dimostrazione di avere fuori dall’Italia la sede principale dell’attività. Ed, in questa ottica, la Corte ha aggiunto che le relazioni affettive e familiari non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo se uniti ad altri criteri probatori.

Inoltre ci sono altre sentenze nelle quali i giudici tributari hanno privilegiato il centro di interessi economici del contribuente determinando l’ininfluenza e l’insufficienza dell’aver stabilito il centro dei propri interessi sociali e personali all’estero. Infatti, la Commissione Tributaria Regionale della Liguria nella sentenza n. 87 depositata il 13 luglio 2012 considerava residente fiscalmente in Italia il contribuente che, pur avendo spostato all’estero la propria residenza anagrafica nonché il centro dei suoi interessi sociali e personali, aveva, al contrario, mantenuto i suoi legami economici prevalentemente in Italia.
Ciò dimostra ancora una volta, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’iscrizione all’A.I.R.E. è solamente un requisito di forma, non di sostanza.

La Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 14434 del 15 giugno 2010 (così come si erano già espresse le sentenze della Corte di Cassazione 7 novembre 2001 n. 13803 e 26 giugno 2003 n. 10179) ribadisce che:

  • non rappresenta un elemento determinante l’iscrizione all’AIRE da parte di un cittadino italiano;
  • occorre individuare il centro principale degli interessi vitali del soggetto, ossia il luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente.

Affinché sussista la residenza fiscale nello Stato, l’art. 2 del TUIR individua tre presupposti, indicati in via alternativa: il primo formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente; gli altri due “di fatto”, ossia costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del Codice Civile. Di conseguenza, ad avviso dei Giudici, l’iscrizione all’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia se il soggetto in questione possiede nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle relazioni personali.

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